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Svevo e la morte negli occhi

  • Immagine del redattore: Nico Carrato
    Nico Carrato
  • 14 lug 2020
  • Tempo di lettura: 1 min

L’immagine di un padre, Italo, rievocata, negli ultimi istanti della sua vita, da sua figlia Letizia.

Fierezza, compostezza, senso di identità e di appartenenza ereditate, ora condivise.

Insegnare a morire, a vivere, esercitando la funzione paterna al confine di un distacco doloroso. Darsi, ostinato, ancora una volta. Non l’annuncio di un eterno riposo, da bagnare con le lacrime, ma la celebrazione di un eterno presente officiata da chi sa che si sta per mettere in scena la propria mancanza.

Il linguaggio adoperato non può che essere il dialetto. Lingua natale, quindi mortale, essenziale, priva di sovrastrutture colte che possano ingentilire i moti dell’anima. Uno dei padri della lingua e della letteratura italiana del novecento, Italo Svevo, un intellettuale capace come pochi di svecchiare la letteratura italiana e di smuoverla, a contatto con la cultura europea, dal suo provincialismo. L’autore de La Coscienza di Zeno, Senilità, Una vita, con la forza espressiva del dialetto - Fioi, guardé come che se mor - consegna l’ultimo frammento esemplare della sua vita ai propri cari, spettatori privilegiati di una funzione nella quale guardare è ancora vivere.

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