Draghi e Monti: prima l'Italiano
- Nico Carrato
- 14 mar 2021
- Tempo di lettura: 1 min
A distanza di dieci anni un nuovo governo tecnico è chiamato a risolvere una crisi: economica nel 2011, anche sanitaria nel 2021. Da Monti a Draghi, agli estremi del declino di una classe politica post ideologica e a corto di idee.
Poche e non sempre efficaci, segni di una crisi anche linguistica.
Idee date spesso in appalto alla sovrastruttura del marketing anglosassone per una politica concepita come un brand, devota allo storytelling. A conferma, se non altro, dell'antico vizio italico, tra marcato provincialismo e vuota esterofilia.
Potrebbe essere questa una delle ragioni a cui alludono, con pause eloquenti, i due premier, accomunati, più che dallo stesso nome di battesimo, da una coscienza civica sinceramente europea. E una padronanza con la lingua (e il pensiero) inglese, tale da consentire loro, senza pose da puristi, di rivendicare un primato dell'italiano (non degli italiani).
Nessun paradosso, ma riaffermazione di un principio di concretezza politica, che passa attraverso l'uso appropriato della nostra lingua, quando non è opportuno ricorrere all'inglese o, peggio ancora, laddove si può generare, colpevolmente, qualche fraintendimento.
Eventuali slogan, degni di essere chiamati tali, le espressioni più forti e durature nascono -statura degli uomini - sempre da una prassi argomentativa, insieme creativa e risolutiva.
Al di là della lingua adottata.
Lo stesso Draghi è ricordato per una frase - Whatewer it takes (Costi quel che costi) - premessa alla battaglia ingaggiata, a suo tempo, per salvare la moneta unica. Espressione divenuta, poi, patrimonio di intenzioni (non solo) politiche ancorate alla realtà.
L'inglese, quello necessario, per salvare anche l'italiano.
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