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Il Capriccio dell'Italiano

  • Immagine del redattore: Nico Carrato
    Nico Carrato
  • 7 nov 2020
  • Tempo di lettura: 1 min

Aggiornamento: 10 mag 2021

Un ribaltamento di ruoli dettato dal tempo e dalle circostanze. Un insegnante d'italiano, in pensione, è interrogato da un suo ex alunno, Procuratore della Repubblica. Non più una cattedra, ma una scrivania di un ufficio spartano della procura, li separa ancora.

Le domande sull'indagine, però, possono aspettare. L'ex alunno recupera, dalla memoria scolastica condivisa, dubbi irrisolti, riformulati, ora, con un atteggiamento da resa dei conti. E con protervia chiede ragioni sull'attribuzione di alcune valutazioni, non soddisfacenti, in una disciplina per la quale ammette una naturale debolezza, ma non cosi importante da condizionare una carriera di tutto rispetto.

É l'orizzonte culturale di un arrivista che parla dell'Italiano in maniera distorta a partire dall'ostinazione capricciosa di un insegnante, poco indulgente nelle valutazioni, che adesso, impassibile, non si sottrae all'interrogazione.

Preceduto da una pausa, ora sì, indulgente, l'insegnante pronuncia"L'Italiano" con due differenti intonazioni retoriche, di attacco e difesa, accompagnate da una gestualità definita. La compostezza, già padronanza del pensiero, è seguita da una postura supponente - petto in fuori e sguardo verso l'alto - che ricalca, demolendoli, i modi spicci del procuratore.

Manca la stoccata lapidaria, e generosa, di un uomo costretto, ancora, a dare una lezione.

Tecnica dell'attore (Gian Maria Volonté) e profondità del testo (Una Storia Semplice, Leonardo Sciascia), un gesto da manuale di fine ottocento, il Capriccio - la mano destra, vicina alla fronte, si avvita su se stessa - cadenza e rafforza la parola.

L'italiano non è solo una disciplina, non è uno strumento per esprimere il pensiero, al contrario, è la premessa, la condizione per poter pensare.

Ed è giusto ricordarlo, ancora una volta, a chi prendeva in prestito l'intelligenza degli altri.


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