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La memoria del presente

  • Immagine del redattore: Nico Carrato
    Nico Carrato
  • 31 lug 2020
  • Tempo di lettura: 2 min

Aggiornamento: 22 gen 2023



Un corteo di uomini, donne e bambini ripreso mentre attraversa una via centrale di una città. Un primo dettaglio – braccia alzate e palmi delle mani visibili – racconta che non ci troviamo di fronte ad una marcia volontaria. Le immagini in bianco e nero, di più, non ci impediscono di intuire il colore giallo che ricopre le stelle cucite sui loro abiti. Sono ebrei obbligati a marciare sotto lo sguardo laterale di qualche rappresentante solerte della polizia locale e dello stesso cineoperatore che indugia su di loro, ora parallelamente, ora compiendo un angolo di circa trenta gradi sulla colonna in movimento. A costui, non pochi rivolgono sguardi tesi e, più ravvicinati, rivelano un’apprensione al limite della rassegnazione. Qualcuno manifesta una vistosa zoppia, alcune donne si voltano forse sollecitate dalla morbosità del cineoperatore. Alla loro destra insegne di negozi, attività commerciali rivelano il contesto – una via dello shopping – dove non mancano passanti fermi, dal lato del marciapiede, che assistono, con quale stato d’animo non si sa, al transito di questa marcia. Per brevi frammenti, alla colonna di deportati, si sovrappone il passaggio di un autoveicolo bellico, un tram, un uomo in bici. Tutti vanno nella stessa direzione. L’insolito angoscioso e il quotidiano banale.

Il fatto che ci troviamo a Budapest, il 17/10/1944 in via Rackozi, fondamentale dal punto di un’analisi storica, diventa accessorio laddove chiunque possa rintracciare una familiarità con immagini simili di deportazioni, verificatesi in tante città d’Europa, quando la ricerca della purezza ariana fu esercitata a sfregio della vita e del suo stesso racconto.

Un dettaglio, però, dopo pochi secondi, rende questa sequenza davvero unica e significativa. Una donna, solitaria, borsetta sull’avambraccio sinistro, attraversa la strada con un passo frettoloso. Riducendo le immagini all’essenza, a linee e traiettorie, troviamo due rette, la parallela alla strada, dei deportati, e la perpendicolare della donna che taglia la fila, con lo sguardo semiabbassato, sollevato solo nel momento in cui necessita di farsi largo tra costoro, per recarsi chissà dove. Fare delle supposizioni, pur verosimili, sul perché avesse tutta quella premura (Ha fatto tardi a un appuntamento? È una mamma che sta correndo a prendere i figli a scuola?) attiene più al mondo stimolante dell’invenzione narrativa. Però in questo incrocio di linee, le uniche in direzioni opposte, si sfiorano, senza toccarsi storia individuale e storia collettiva che sembrano, ciascuna per sé, seguire il proprio destino. Noi, adesso, siamo consapevoli che queste immagini seguono un rastrellamento e precedono un campo di concentramento. Senza voler essere giudicanti nei confronti della donna (Sapeva cosa stava accadendo? Ha avuto paura?), oggi, siamo certi che l’esercizio della memoria si declina sempre al presente, attraverso uno sguardo soprattutto periferico capace di porsi le domande giuste laddove la realtà assume, qui e ora, accanto alla normalità, sembianze preoccupanti.



 
 
 

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